Sui recenti stupri si è aperto un ampio dibattito che vuole puntare il dito verso questo o quell’altro fattore. Ma forse la realtà è più semplice di quello che pensiamo o, ancor meglio, per vedere la realtà bisogna fare un passo oltre quei fattori verso cui si sta puntando il dito. E la realtà è una: non siamo felici. Anzi, non sappiamo neanche cosa sia la felicità. E forse abbiamo anche paura di essere felici perché vogliamo tutto e subito, incuranti anche che, come diceva Leopardi, la felicità sta nell’attesa. Pensiamo allo stupro: non sappiamo più creare rapporti, solo cose fugaci e non più duraturi (vade retro, poi, il per sempre). Ma è forse questa la felicità? La felicità è attesa paziente, studio, coraggio, anche sofferenza. Cantava Luca Barabarossa in “L’amore rubato” (che ebbe anche il plauso di Franca Rame) e in cui si parla di un abuso che la vittima “sognava un amore profondo, unico e grande, più grande del mondo”. Dov’è più il sogno? Non c’è più la concezione che l’altro è un dono e l’altro sceglie di donarsi liberamente a chi vuole. Non c’è più il rispetto dell’altrui libertà, solo l’egocentrismo di pensare al proprio piacere. Ma non è felicità, perché la felicità è armonia con se stessi e con gli altri. È un equilibrio che si trova dopo una situazione “squilibrata”. La felicità di una coppia passa per diverse fasi di squilibrio. C’è la prima conoscenza, le prime fugaci parole, i primi sguardi, poi lo scambiarsi il numero di cellulare. Avere una botta di coraggio e mandarle un messaggio via Whatsapp e sperare che ti risponda. E, perché no, tormentarsi, chiedersi mille volte “perché non mi risponde?” se quel cellulare non vibra con la tanto agognata notifica, stare in pensiero, sperare, sudare e soffrire e poi essere felici quando ricevi un messaggio di risposta. Anzi, se Dante fosse qui oggi, direbbe che con quel messaggio dice all’anima “sospira”. E poi di nuovo tormentarsi e cercare coraggio di chiedere un appuntamento, aspettare una risposta, pensare che forse è troppo presto, che magari il messaggio è stato mandato male, che la forma non è perfetta, magari si può equivocare. Magari si riceve un no perché ha un impegno e quindi si cade nella disperazione più nera, ma poi propone un’altra data e si tocca il cielo con un dito. Questa è felicità. Con l’appuntamento la cura maniacale per essere semplicemente perfetti, fare una buona impressione, curarsi per donarsi all’altra persona perché ciò che più importa in quel momento non è tanto la nostra felicità quanto quella dell’amata (direbbe Guccini “io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il Sole). E poi parlare, confidarsi, aprirsi, donarsi a 360 gradi nei confronti dell’altro perché c’è di più oltre un semplice rapporto fisico. Lì c’è la felicità.
Ma per fare ciò ci vuole tempo e ci vuole tanta sofferenza. E questa non è una società che permette di perdere tempo o di mostrarsi sofferente. Questa è la società in cui tutto deve essere impiattato subito e anche i rapporti umani sono studiati a tavolino per poter essere ottimizzati in chiave di un utile che in questo caso è il piacere del singolo (poi una volta ottenuto l’utile tutto si può scartare). È una società in cui bisogna mascherare la sofferenza e i veri sentimenti sotto un manto di ipocrisia e manifesta felicità.
Ma quando ci vediamo allo specchio chi di noi può rispondere affermativamente alla domanda “ma tu sei felice?” Fugacemente tutti possiamo rispondere sì, ma soprattutto noi ragazzi, sballottati di qua e di là, con un futuro incerto e che dobbiamo sempre essere pronti a cambiare e a essere resilienti, con rapporti umani che cambiano perché dobbiamo spostarci e al più ci teniamo in contatto su qualche social, con il fiato sul collo della società che ci vuole tutti perfetti, tutti omologati, tutti dottori, siamo veramente felici?
E siccome non siamo felici perché non abbiamo le condizioni per esserlo e comunque, qualora le avessimo non avremmo il coraggio di avventurarci in una scommessa di tempo e sofferenza, ci rifugiamo in altri contesti, a volte pericolosi e nefasti quale anche lo stupro perché ormai siamo insensibili a tutto e quel che conta è un egocentrico bisogno di soddisfazione fugace del piacere. Ma non è questa la felicità.
Alain Calò
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