top of page
Francesco Salamone

ELOGIO DEL PAESE IN CUI VIVO. VENITE A CASTEL DI TUSA E PRENOTATEVI PER UNA PROSSIMA VOLTA

Entrando a Castel di Tusa (ME), lungo un muro scrostato, campeggia un cartello “Castel di Tusa - Bandiera blu”.

Un’accoglienza che non è certo uno sguardo torvo al turista, prima di mostrargli la lama del coltello. Nello spirito di molti “marinari” insiste ancora la convinzione che chi viene qui, lo faccia solo per sfruttare e oltraggiare.

Non è vero, ma è anche vero che certi turisti, in effetti, non hanno mai convinto: vogliono divertimento e comodità, ma della amenità del borgo se ne fregano. I colori abbaglianti delle vecchie case dei pescatori, con il loro riverbero, bruciano la retina proprio poco prima della uscita autostradale o fra le serpentine della strada nazionale; uno cerca contorni netti, ma scorge da prima solo una tavolozza di tempere esplose, di macchie luminose indistinte come promesse.

La fascinazione, quella che porta a fissare meglio il paesaggio urbano per distinguerne i tratti, toglie attenzione alla strada e può risultare “fatale”. Balbettando fra labbra imbevute di salsedine indistinta, si percepisce che la “modernità” è arrivata anche qui.

Si vede, quasi all’ingresso del paese, sotto la Chiesa, una pasticceria gelateria dalla qualità quasi palermitana. Se, poi, proseguite guadagnando l’uscita per metri brevissimi dal Paese, vi ritrovate sul torrente Tusa, mentre di lá, lontano, verso il mare che tocca l’orizzonte, le barche con le reti aspettano l’uscita della sera, lasciandosi asciugare dal sole.

Abbandonate la vostra macchina, prima. Castel di Tusa è un Paese da percorrere rigorosamente a piedi. Non fate come tutti quelli che vorrebbero sfrecciare anche lì dove inizia la zona pedonale, neanche si trovassero a Milano, essendosi portati dietro la fretta di fare tutto in tempo utile. Tanto una volta a Castel di Tusa, prima o poi ci ritornerete.

Sarà il cuore a costringervi: alcuni ne medicano le ferite, altri ne sono morti, talaltri ancora sono ancora in cerca della propria identità. È d’obbligo fermarsi un secondo al bar oltre la Stazione ferroviaria, lato Messina; il bar è quello di “Nasone”, un Signore che si chiamava Giovanni, grande lavoratore, ristoratore, uomo di parola e di amicizia. Fatevi un bicchiere di birra, … tanto state per sudarlo. Se questo bar non vi garba, potrete anda in quello della Stazione, nuovo di zecca e intriso di entusiasmi giovanili! Ma non perdete troppo tempo. Prendete subito la strada che conduce verso la Piazza. Prima, però, entrate in Chiesa.

A Castel di Tusa, Dio esiste anche per gli atei ed è un misto tra quello cristiano e Nettuno. Certamente, tra le mura della Chiesa ha portato un fresco di salsedine, un sentore di luce celeste come quella del cielo e, ovviamente, del mare più limpido, colore del vino, carezzato da un maestrale sincero. Poi viene “Le Lampare”. È la parte più turistica, ma è d’obbligo passarci per un veloce saluto.

Guardate davanti a voi, poi giratevi. Ci sono prospettive che vi attendono lungo quella via. Del resto, siete qui per consumarvi gli occhi. C’è, per esempio, il tramonto, c’è la roccagrande, c’è il guizzo dell’alalunga lungo l’intreccio visivo dell’orizzonte. Ma è adesso che viene il bello. Prendete un vicolo, uno qualsiasi, possibilmente il più stretto; quello ideale, per me, sale verso il Castello. Inoltratevi, senza paura. È arrivato il momento di perdersi. Più vi entrate fra i vicoli, più la gente si stanca, si ritira, scompare.

È lì che ascolterete Castel di Tusa. Una volta compiuta la scelta di abbandonarsi a questo dedalo, non abbiate timore a essere indiscreti. Rubate ogni colore e voce, osservate attraverso le porte che i tusanimarinari lascierebbero aperte, se fossimo “in altri tempi”. È pieno di vite che non conoscete, come tanti personaggi di un monumentale romanzo. Sappiatelo, ci sono tante scale da salire. Scale che sanno di fatica, di gente che ogni giorno, dopo il lavoro, si è dovuta guadagnare la strada verso casa passo dopo passo. Nessuno, neanche i burocrati, sa quanti vicoli e scalinate ci siano a Castel di Tusa.

Sono tanti quanto le gocce del mare accanto. Ognuno fa una conta inestimabile, personale, di questi gradini infiniti. Ogni volta che sono salito sempre più in alto mi sono smarrito e ho pensato che forse un giorno non avrei più ritrovato le stesse vie, che alcune le avrei viste solo una volta, perché non si sarebbero più mostrate. E spesso, da solo, cercando di fare il più piano possibile, ho ascoltato i miei passi dileguarsi e allontanarsi da me. Sono rimasto col silenzio.

Era un qualcosa che si sprigionava dalle case, dai loro colori che aspettano in un grido senza voce. Il silenzio era il calore della pietra che ho accarezzato con la mano. Era il sole che aveva bruciato ogni traccia di vita dalla strada. Io lo so. L’ho visto, come in “I limoni” di Montale, … c’erano anche quelli, con i loro rami, ma non ricordo da quale casa si sporgessero a fissare muti la via. Ho pensato molto a quei versi, mentre camminavo come un pellegrino alla ricerca della visione, sollevato persino dal doloroso torpore della sete: “E andando nel sole che abbaglia”. Lì ho visto anche i “cocci aguzzi di bottiglia” alla sommità del muro, luccicavano come smeraldi dei poveri, come una ricchezza a cui nessuno fa caso.

Alla fine, non vorrete più allontanarvi da Castel di Tusa, ritrovare la strada dove le persone si incontrano e riempiono l’aria di parole. Quell’atmosfera è ormai irrecuperabile, una di quelle esperienze che non sembra possibile aver vissuto realmente. Bisognerà tornare. Cercare un’altra volta. Il silenzio è ancora lì da qualche parte, in un tempo eterno, di pietra che attende.

0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comentários


bottom of page