Piazza Venezia, Roma Urbe
Teatro Ariston, Sanremo.
Esistono ancora quelli come me: non partecipano ad adunate, nè alla clak entusiasta delle prime file.
Certo, siamo 4 gatti, abbiamo qualche acciacco, ma prendiamo atto in silenzio.
Sembra che in Italia la clessidra del tempo di una società conformista e piccolo borghese non cambi mai, come un rettile muta la pelle e sta un attimo a dismettere orbace e camicia nera per indossare il doppiopetto gessato grigio algido, sorridente, gaudente e sornione dell’ipocrisia “repubblicana e democratica”.
Col timbro di Stato di una élite distante dalla gente comune, questa adunata contemporanea è solo una spesa pubblica spaventosa, di fatto non è servizio imparziale, non è termometro di niente, è una narrazione leggenda di un Paese vassallo, non rivela il nuovo, né anticipa prodromi di un nuovo fermento irredentista.
All’ombra di coreografie psichedeliche, galleggia solo il vecchio e l'incrostazione, la retroguardia e il ritardo culturale della Rai. Nascosta sotto la velina di un concorso per cantanti, splende solo un indisponente squarcio su stipendi, compensi irriguardosi, appalti esterni e agenti famelici, che fanno pendant alle prime scene di modelli dall’effimero virtuale dei social.
Per alcuni come me, pochissimi, queste adunate, dai balconcini malinconici e senza orgoglio, sono solo un malore influenzale d’inverno. In confronto, i karaoke di Fiorello o i juke-box anni ‘70, furono pura avanguardia nazionale: libera, sobria, composta, “vibrante di romano orgoglio”.
Sanremo è il nostro tempo.
Un transatlantico di denaro, con ascolti giganteschi in un grande ospedale da campo dove a pazienti consapevoli si è pure imposta la presenza della Istituzione più alta e rappresentativa, come una iniezione di cortisone doppio in un corpo macilento.
Sono così qui, a dire la mia, cosciente di agitare una bandiera già sconfitta e manifestandovi, come un vecchio bavoso e ombroso, la mia opinione: io non sono quella cosa lì, non è il mio Paese.
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