Vescovo a Siracusa
A Siracusa il vescovo Testa adotta iniziative che possono considerarsi preludio alla sua politica monrealese: nel 1749 fonda l’Accademia sacra e l’anno appresso quella degli Anapei, istituisce il convitto dei nobili, amplia il seminario. Il suo intervento determina la ripresa dei lavori per la facciata del duomo, il biografo Sinesio avrebbe scritto che portò a perfezione la parte superiore della cattedrale che era stata tempio di Minerva. Nel frattempo i suoi referenti occupano posizioni di assoluto prestigio: dopo sei anni in Sicilia, l’archimandrita Silvio Valenti Gonzaga è tornato a Roma per divenire segretario di stato del nuovo papa Benedetto XIV; il principe di Aragona è Presidente della Giunta di Sicilia a Napoli, e circa il legame del vescovo Testa con la corte napoletana sono testimoni alcune sontuose opere d’arte da lui commissionate per il duomo di Siracusa, come il ciborio realizzato da Luigi Vanvitelli negli stessi anni in cui è impegnato nella reggia di Caserta.
Arcivescovo a Monreale
Nel maggio 1754 Francesco Testa viene eletto arcivescovo di Monreale e Inquisitore Generale con designazione diretta del re, che si adatta a scegliere il raccoglitore dei Capitula per la più ricca delle chiese di regio patronato; papa Benedetto XIV riconosce i molti meriti del prescelto e ratifica la nomina. Monreale è la scena in cui l’arcivescovo Testa si muove da demiurgo, è lo “Stato” in cui per quasi vent’anni agisce come Abate e Signore cambiando il volto della cittadina. La sua multiforme attività riformatrice passa attraverso il disciplinamento dei corpi e delle anime e anche del territorio, con l’obiettivo di proporre al Regno un modello di virtù religiosa che dal piccolo Stato teocratico si contrapponga “naturalmente” a quello di virtù civile elaborato dall’Illuminismo. L’arcivescovo è ritratto dal suo biografo Secondo Sinesio come un uomo dalle abitudini esemplarmente frugali, ma nelle sue scelte pubbliche mostra una sensibilità di stampo gesuita, e “tutto ciò che era sacro al supremo Signore vedeasi d’argento e d’oro e di gemme risplendere”. L’attività di committente urbanistico-architettonico è l’aspetto più immediatamente visibile di un riformismo globale teso a tracciare “via siciliana” per la modernità, che si configura come un progetto di rifondazione religiosa del Regno. Il primo obiettivo è l’educazione del popolo alla morale cristiana, da raggiungere attraverso la formazione dei sacerdoti destinati a guidarlo: da arcivescovo-inquisitore Testa esalta il valore della figura sacerdotale che dev’essere rigorista, senza cedimenti. L’arcivescovo-sommo inquisitore controlla l’Inquisizione e la confessione, i due principali strumenti di intervento sulle coscienze, e nel giugno 1755, in occasione della prima visita pastorale, emana un minuzioso editto che richiamandosi al dettato del Concilio di Trento disciplina i comportamenti del clero. Monreale sembra il luogo ideale per un progetto teocratico. La vita dei quasi novemila abitanti è organizzata attorno alle 22 chiese, ai monasteri, ai conservatori delle vergini e alle congregazioni: è una città-convento dove le dispute teologiche sono pane quotidiano. Non appena insediato Francesco Testa rinnova il collegio dei gesuiti introducendo nuove materie e rivoluziona l’organizzazione del Seminario istituito nel 1590 da Ludovico II Torres. Monreale si configura come la scuola d’eccellenza dei gesuiti e l’arcivescovo affronta l’esigenza di professionalità, che aveva portato alla crisi del monopolio gesuita in campo educativo, chiamando gli insegnanti più prestigiosi, mettendoli a stretto contatto anche con colleghi lontani dalle loro idee per educare i giovani al confronto dialettico. Quando, nel dicembre 1767, l’espulsione dei gesuiti rischia di lasciare il Seminario senza docenti di prestigio, l’arcivescovo accentua il carattere eclettico della scuola monrealese. Nel Seminario studia e poi insegna Vincenzo Miceli, che sempre rimanda la pubblicazione della sua ortodossia mistica e trova fieri rivali fra i docenti suoi colleghi. L’ambiente è conflittuale, le divisioni vengono favorite dalla tradizionale separazione tra clero secolare e benedettini; si formano partiti che nelle pubbliche dispute lottano per la supremazia del proprio maestro, solo la presenza dell’arcivescovo riesce a contenere le molteplici gelosie. Il più temibile avversario di Miceli è il camaldolese Isidoro Bianchi, arrivato a Monreale nel 1770 per insegnare teologia dogmatica. Miceli e Bianchi sembrano incompatibili ma sono entrambi protetti dall’arcivescovo Testa, sono due aspetti della sua politica globalmente riformatrice: Miceli sviluppa teologia e filosofia “nazionali”, Bianchi è più coinvolto nella politica e nel diritto. L’arcivescovo segue le dispute, ha necessità di scegliere quale filosofia possa più utilmente collocarsi nel suo progetto di rifondazione culturale del Regno: occorre un sistema che esalti la virtù religiosa senza tralasciare quella civile e, visto il protagonismo di Isidoro Bianchi e la vaghezza in cui rimane la filosofia di Miceli, è verso il camaldolese che l’arcivescovo Testa propende.
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