Giunto ai 65 anni Domenico Dolce si fa venire un attacco di antipatia e si esibisce in un soliloquio sugli “errori” dei giovani siciliani. Il contenuto? La solita vecchia zuppa di chi, più unico che raro tra le migliaia di giovani che un tempo fuggì via dalla Sicilia con “la valigia di cartone”, in qualche modo ha fatto fortuna.
Nulla da eccepire sulle capacità del Dolce, sulla sua visione e su come quel suo kunstwollen così improntato sulla sicilianità, per certi versi persino pacchiana, sia divenuto la chiave del successo.
Tante cose, invece, avrei da dire su quelle idee che dietro il mondo della moda stanno. Una delle forme più aggressive del capitalismo nella quale la nascita e la gestione di bisogni indotti sta alla base della fortuna dei pochi molto spesso a sfavore di turme di giovani e giovanissime manine del terzo mondo. Siamo oramai abituati a sentire di fabbriche del tessile in aree povere del mondo, di folle bengalesi chine sulle macchine da cucire per pochi centesimi l’ora, di come, quello che un tempo facevano le tessili di Gagliano e Centuripe oggi venga fatto a Chittagong o a Gazipur.
Sproloquiando di Redditi Minimi, di viaggi e coraggi, il Dolce dimentica evidentemente i numeri: la sua Polizzi, un tempo città di nome e di fatto, conta solo 2.979 abitanti (dati 2021) contro i 5.972 del 1971, quando Domenico da essa fuggì, o contro i ben 10.109 del 1921. E se prima i giovani sotto i quaranta anni erano la maggior fetta della popolazione, oggi le fasce più rappresentate stanno sopra i sessanta anni. Allora i giovani non rimangono, non stanno lì sui social, non si grattano la pancia come sostiene lo stilista, ma, attratti da altro che non sia la vista della Padella e della vallata dell’Imera settentrionale, vanno altrove in cerca di qualcosa che motivi la vita.
Dolce sostiene che le campagne sono oramai vuote e che, qui casca l’asino e pure il cavallo, non sia colpa della politica ma proprio dei giovani che parrebbe non vogliano più prender la zappa in mano. Ora mi chiedo: cinquanta anni fa il giovane Mimmo come mai non si sputò sulle palme e diede giù di zappa? Come mai preferì la valigia di cartone alla raccolta delle nocciole? E, visto che di politica parliamo, come mai il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) siciliano, di gran lunga il più copioso Piano europeo di sviluppo in tutta l’UE, ha lasciato che le campagne si svuotassero? Forse perché la politica siciliana ha consentito che ad utilizzare quei fondi fossero esclusivamente i soliti noti? Forse perché ogni centrale sindacale delle categorie rurali si è trasformata in un ufficio di patronato per domande e carte mirate a fare degli aiuti un flusso interminabile di danari ben distinti dalla produzione e quindi dalla possibilità di impiego? Vogliamo parlare dell’allevamento? Vogliamo parlare di come in un territorio come quello della provincia di Enna, dedito ufficialmente all’allevamento ed alla cerealicoltura decine di comuni non abbiano più un macello? Vogliamo parlare di come i banchi delle grandi catene della GDO siano ricolmi di carne allevata e macellata in Germania, Francia, Ungheria? Vogliamo parlare di come il popolo siciliano sia l’unico ad allevare pecore e disdegnarne le carni? (Salvo poi pagare a peso d’oro gli arrosticini all’abruzzese). Dolce, questa volta hai toppato, disegna vesti e vestine, divertiti, se puoi, come ti hanno detto molti giovani, investi in Sicilia, a Polizzi o a Roccacannuccia. Regali qui non ne vuole nessuno ed ai giovani piacerebbe praticare la “restanza” se solo si facesse qualcosa per rivoltare la politica come un calzino magari griffato D&G. Anzi, se ce la fai, pratica la politica, punta il dito su chi non riesce a metter su un disegno come uno di welfare, su chi ha deciso nel tempo di far fuori gli ospedali dell’intero appennino siciliano, su chi cincischia del ponte e non è in grado di dare alla Sicilia strade che abbiano diritto a tal nome altrimenti goditi i tuoi paesaggi, respira l’emozione della curva al bivio di Donalegge, accendi un cero a San Gandolfo e sorseggia una calda camomilla, a quell’età (che è per lo più anche la mia) fa bene.
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