Una fila di abeti svettava, velando la roccia soprastante, donando una fresca e gradevole ombra al prato del suo piccolo pezzo di campagna sopra il bevaio di Sperlinga. “Mi hanno criticato, quando ho piantato questi alberi. Secondo loro, avrei invece dovuto piantare degli alberi che danno frutto. Ma ognuno di questi rappresenta per me una persona: questi, vedi, sono le mie figlie. Guarda come crescono alti”. Gino mi spiegava così, la primavera scorsa, il motivo di una scelta tanto incomprensibile per i contadini del paese, abituati dalla necessità ad avere un rapporto utilitaristico con la terra. Ma lui era guidato da altre logiche, da altre ragioni: quelle dell’amore.
L’avevo conosciuto quando ormai era arrivato a ottant’anni, conservando nonostante questo uno spirito tenace, battagliero e ottimistico, come la roccia, l’aria e il sole che compongono il paese in cui è sempre vissuto. Era davanti la porta di casa e innaffiava il suo giardino: una scarpatella di pietra che aveva ricoperto di vasi e di piante, come un piccolo giardino pensile.
Mi invitò ad entrare a casa sua, a percorrere la scala di collegamento dei vari piani. Mi colpirono alcune foto, che mi riportarono indietro di decenni, alla mia infanzia. Erano gli anni Ottanta, anni di manifestazioni, in Sicilia, contro i missili nucleari della base di Comiso. “Questo sono io”, mi dice indicando la figura di un giovane prete che regge un cartello contro la guerra, attorniato da tanti ragazzi. Esile e piccolo di statura, ma con uno sguardo talmente fermo, dietro gli occhiali, e un sorriso così sicuro e fiducioso da convincere chiunque che la marcia avrebbe avuto successo.
“Sì, sono stato prete. Ma poi mi sono tolto la tonaca”, mi confessa a voce più bassa, con un certo pudore. “Hai fatto bene”, gli dico, guardando una foto in cui è colto mentre avanza di fretta, e la tonaca è troppo stretta per contenere l’ampiezza e la forza del suo passo. La tonaca è fatta per spiriti più compassati, più diplomatici. Per spiriti che camminano meno, o non camminano affatto. Per spiriti che non sanno con quale facilità e potenza l’amore riesca a distruggere abitudini, convenzioni, certezze.
Saliamo le scale. Altre fotografie: quelle scattate per le campagne di Sperlinga assieme ai ragazzi del paese, durante una delle tante iniziative in cui li coinvolgeva. Tante foto. “Ero sempre assieme a loro. Sempre insieme ai ragazzi”.
In cima alla scala, ai piedi di due foto molto antiche, alcuni attrezzi da lavoro, ormai arrugginiti: una zappa, una falce, e molti altri utensili piccoli e umili. “Sono i miei genitori. Con il loro lavoro mi hanno permesso di essere quello che sono oggi. Gli devo tutto. Nel mio cuore c’è sempre un altare per loro”.
Ecco lì concluso il cerchio della sua vita. Il suo bisogno di tornare, a ottant’anni, alle origini, al punto in cui tutto è cominciato.
Giunta alla fine della vita, si legge nelle Upanishad, l’anima di raccoglie su se stessa, come fa il bruco, prima di salire su una nuova foglia.
Da una carta attaccata al muro vengo a sapere che la sua anima è salita più su, su un ramo più alto, su una foglia nuova e fresca.
Pianterò un albero per lui, nel mio giardino.
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