La domanda che questo blog ci pone è se Nicosia, o comunque l’entroterra Siciliano, sia o meno un paese per vecchi. Sarebbe facile richiamarsi al romanzo (e poi al film) “Non è un paese per vecchi”. E, per certi versi, sarebbe altrettanto facile, quasi da controcanto, richiamarsi ad un altro film “Non è un paese per giovani”. Anche perché, guardando i dati sullo spopolamento (e aldilà dei dati basta fare un giro tra le proprie amicizie e conoscenze), molte persone emigrano alla ricerca di un futuro lavorativo migliore. E “gli anziani”, ovvero i genitori di queste persone che magari sono riuscite a trovare una certa stabilità economica, per non invecchiare da soli preferiscono raggiungere i figli.
Questo scenario porta inevitabilmente ad una fine del “glorioso” entroterra, quel nobile fazzoletto di terra pieno di tesori e di storia ma che è diventato un paese né per vecchi né per giovani. È tutto perduto? Si può invertire la rotta? Sicuramente vi è comunque un dato incontrovertibile: quello di sentire forte il grido di non rassegnazione da parte di noi tutti abitanti della zona nord della provincia di Enna dinnanzi ai tagli, ai soprusi e alle ingiustificate politiche di impoverimento che i governi centrali stanno attuando verso di Noi. Ma mi sovviene anche, alla luce dei dati riguardanti lo spopolamento del territorio, un mio ormai consolidato pensiero sul nostro progressivo impoverimento che non deve esaurirsi nelle poche battute di poc’anzi. Un pensiero che ci vede, aldilà di qualunque politica depauperatrice fatta “dall’alto”, costretti al default, non solo economico, anche per colpa nostra. Mi spiego meglio con un esempio: Prendiamo il paese di Nicosia e supponiamo una popolazione di 10.000 abitanti divisa in gruppi di 2000 famiglie composte da 4 persone (padre, madre e due figli) e le restanti 2 mila di famiglie senza figli o fatta di anziani. Questa è semplicemente una generalizzazione per facilitare i calcoli. Assumendo che il Comune disponga di una quantità di denaro che investe per i ragazzi da 0 a 18 anni (scuolabus, giochi, eventi giovanili…) vediamo come questi soldi, usciti dalle casse comunali, rientrano nell’economia di Nicosia grazie sia alle tasse dirette versate dalle famiglie all’erario, ma anche e soprattutto dalle tasse indirette versate dai commercianti (assumiamo, per semplicità, che ci siano 1000 commercianti in paese) che, grazie alle spese di famiglie e ragazzi (sin dal semplice panino per la scuola), guadagnano e mettono nelle condizioni, a chi volesse intraprendere la strada del commercio, ad affacciarsi nel mercato locale aprendo nuove realtà. Il problema si pone nel momento in cui l’offerta formativa di Nicosia si ferma. A 18 anni, spinti dal mito della laurea (come il sottoscritto), la quasi totalità dei ragazzi abbandona la propria terra per andare all’università. Che cosa accade? Semplice: diminuisce la domanda. Diminuendo la domanda di beni e servizi crolla letteralmente l’offerta (in quanto, soprattutto nel breve periodo, è anelastica, cioè che non riesce a rispondere “bene” a questo sensibile calo di domanda). L’amministrazione continua ad investire perché, giustamente, ancora si fanno figli. Ma il problema è che il tasso di natalità diminuisce. Quindi il comune continua a immettere la stessa cifra di denaro (serve uno scuolabus sia con 100 che con 70 ragazzi) trovandosi un ritorno minore (deficit e quindi debito). I commercianti, al diminuire della domanda, vedono diminuire i loro profitti. Tutto ciò comporta di dover “stringere la cinghia”: l’Amministrazione si vede costretta a “tagliare” su alcune voci (ad esempio uno spettacolo in meno o più contenuto…) e i commercianti, abbassatasi la clientela, chiudono (da 1000 a 700) riducendo ulteriormente le entrate comunali. Risultato? Meno appetibilità e possibilità, conducendo i cittadini (e non più quindi solo i ragazzi) ad emigrare (con la propria economia) in altri luoghi più prosperi, determinando lo svuotamento e il fallimento delle piccole realtà in favore delle grandi. Ovviamente l’analisi fin qui condotta è una semplificazione al massimo di un singolo aspetto (magari anche marginale) del problema delle nostre realtà. Dare una soluzione è alquanto ostico perché il campo è abbastanza “minato”. Cerco di agire logicamente con gli strumenti economici. Ma il tutto ovviamente è opinabile e riconducibile ad un mero “secondo me” (non ho pretese di sistemare le cose o dare lezioni su una materia che non è la mia). Dal ragionamento fin qui condotto è oggettivamente emerso che il problema non stia tanto nell’offerta quanto nella domanda. Serve quindi agire prima su di essa. Le politiche di microcredito alle nuove imprese emergenti, soprattutto a quelle che non “cambiano” l’offerta (quelle cioè che non immettono sul mercato qualcosa di nuovo e diverso da ciò che è presente), alle quali tanti plaudono e sperano, infatti, possono essere qualcosa di positivo solo se prima si interviene sulla domanda. Altrimenti è distruttiva. Infatti il microcredito a una impresa che produce un qualcosa di nuovo, di “mai visto” a Nicosia è positivo perché fa sviluppare una domanda alla quale solo la determinata impresa può rispondere. Diversamente, il microcredito ad imprese diverse dalla prima fa aumentare maggiormente l’offerta. Così facendo non si fa altro che mettere il dito nella piaga. Magari nel breve periodo qualcuno potrebbe beneficiarne (creare un’impresa nel proprio territorio e stabilirsi nella propria terra definitivamente). Ma nel lungo periodo, con una domanda sempre bassa, l’offerta non può far altro che “adeguarsi” e mantenersi bassa. In un equilibrio di mercato saturo, ogni impresa che entra comporta un’impresa che esce (assumendo che ogni impresa aumenti o diminuisca un’unita di offerta uguale). Si creerebbe la situazione di 10 segretari per 5 computer. 5 segretari sono in più e quindi inutili. Il microcredito alle nuove imprese, in una situazione del genere, è come assumere l’undicesimo segretario: un suicidio! Serve quindi un incentivo sulla domanda. 10 segretari devono avere 10 computer. Ecco quindi quello che mi sento di suggerire “timidamente”. Serve intanto pensare nel lungo periodo: c’è bisogno di aumentare il turismo perché se la domanda cala al nostro interno dobbiamo, quantomeno, tamponarla e cercare di alzarla con “l’esterno”. Ci sia turismo a qualunque costo. Anche a costo di investire nella sagra più disparata. Purchè non si cada nel gioco delle “tre carte”, ovvero fare la sagra in cui partecipano solo i “paesani” e quindi raccogliere soldi interni che poi potrebbero essere ributtati verso l’esterno (anche qui una cura pressoché palliativa e, per certi versi, con risvolti negativi). Serve, inoltre, sinergia totale tra turismo e attività commerciali affinché queste ultime “raccolgano” la domanda proveniente dall’esterno. E su questo punto bisogna dire che, in fin dei conti, siamo messi “bene” perché, dando a Cesare quel che è di Cesare, vi sono degli eventi, portati avanti in sinergia tra pubblico e privato, che potrebbero raccogliere molto dall’esterno.
Ma non possiamo “lavarci la coscienza” con il solo turismo che, come detto, è solo un tamponamento. Bisogna rendere più “appetibili” i prodotti del proprio territorio. Bisogna evitare quanto più possibile i “viaggetti nelle grandi città” per fare shopping, rivolgendosi invece alle realtà locali. Ma ciò si fa sensibilizzando e uscendo dallo schema mentale che “il prodotto non nostrano sia migliore”. Ciò non significa che vi debba essere una chiusura praticamente autarchica e un modello chiuso di mercato. La competizione è sana e salutare, ma deve essere corretta. E la competizione deve premiare il prodotto “migliore” dove con “migliore” non si deve intendere necessariamente “quello che costa di meno” (altrimenti è una battaglia persa in partenza con le realtà più grandi), ma con una serie di caratteristiche che portino il consumatore a sceglierlo rispetto agli altri (caratteristiche qualitative che possono variare da un supporto in loco o altro). Quando, invece, la concorrenza degenera nella prevaricazione (ma questo in tutti i campi) si causa un inutile spreco di energia fisica ed economica. Bisogna, inoltre, da parte di tutti gli enti locali, investire nell’entroterra, immettendo sempre più liquidità (ovviamente non “a pioggia” o come queste buffonate del reddito di cittadinanza che portano solo stagflazione, ma una politica volta a creare lavoro, ovvero produzione di ricchezza). Il PNRR sicuramente fa scuola in questo campo ed è un’occasione da non perdere. Solo dopo questo imponente aumento di domanda il microcredito per la costituzione delle imprese non solo è giusto ma è anche necessario. Aumentando la domanda deve infatti aumentare l’offerta, quindi l’affacciarsi di nuove imprese sul mercato è indispensabile (avendo 11 computer e 10 segretari abbiamo, ora sì, bisogno dell’undicesimo). E, per certi versi, senza volerci contraddire ma cercando di calare il modello nella realtà, tra le imprese locali c’è anche bisogno, quantomeno nel breve periodo, di una concorrenza interna assieme alla costituzione di un “trust esterno”. Che cosa si vuole intendere con questa espressione? 100 imprese a Nicosia che si fanno concorrenza “in loco” ma che fuori Nicosia collaborano tra loro (tramite la condivisione di contatti e di conoscenze tecniche) per ampliare il proprio mercato oltre i confini locali. E così dovrebbe avvenire anche per qualsiasi altra forma produttiva nostrana. Le associazioni culturali, nello spirito di concorrenza, tra di loro competono, ma in ottica più generale devono trovare una sintesi per offrire ad un turista una visione di Nicosia unita, produttiva e culturalmente viva (cosa che si può fare maggiormente se a collaborare vi sono 100 associazioni che, nello spirito di sana competizione, creano 100 eventi diversi ben calendarizzati da una regia). Utopia? Per certi versi sì per il semplice fatto che basta guardarsi in giro e vediamo come la competizione spesso si trasformi in una guerra tra poveri con, andiamo nel campo associativo, più eventi in una stessa giornata manco fossimo chissà quale grande paese. E se si va a vedere i partecipanti a quegli eventi nulla di strano se il 90% di essi sono iscritti alla medesima associazione proponitrice. In un contesto, quindi, in cui più che la sana competizione sembra lasciare spazio alle prove di forza dei singoli, ben poco può anche una regia (che potrebbe essere l’Amministrazione) che da regia poi rischia di divenire, suo malgrado, parafulmine. Servirebbe, quindi, quasi una rivoluzione copernicana perché questo “io ipertrofico” (non si spiegherebbe altrimenti) malcelato dall’ipocrisia dell’ “amore per la comunità” è ciò che bisogna eliminare, o comunque ridimensionare nell’ottica non tanto di creare un acefalo e pericoloso “noi”, ma tanti “io” (e quindi riconoscere la dignità dell’altro), che collaborano (la corretta competizione è già una forma di collaborazione) nel creare un’offerta presentata in maniera meno ipocrita ma più vera (faccio l’evento X perché ho un certo interesse e al contempo questo evento X crea esternalità positiva alla comunità). I “salvatori della patria” non esistono e ce lo insegna la storia. Certe costruzioni che sembrano scimmiottare le tombe egizie e vengono presentate come “doni alla comunità” non sono assolutamente credibili nel momento in cui si vedono a caratteri cubitali i nomi di questi presunti benefattori (la comunità, se si vuol fare veramente del bene, ha bisogno di altro). Se riuscissimo a spogliarci un po’ più dell’ipocrisia già avremmo una buona parte della soluzione. Dobbiamo, quindi, lavorare ancora sui fondamentali… poi si può tornare a discutere se si può o meno “invertire la rotta”.
Commenti