Confesso di provare un certo fastidio, a volte vera e propria insofferenza, per la ridondante presenza dei termini “umiltà” e “umile” in ogni articolo e commento pubblicati dopo la morte di Totò Schillaci.
Leggo sui giornali ricordi di compagni di Nazionale di Schillaci di questo tenore:
<< … Ci siamo ritrovati io, lui e Baggio, ci stavamo fumando una sigaretta. Lui ci guardava come dire “che ci faccio qui in mezzo a loro?”. E invece aveva il carisma del campione e le qualità per stare in azzurro…». Ora, Andrea Carnevale, perché sono sue le parole sopra riportate, riconosce a Totò il carisma del campione e le qualità per stare in Nazionale, tuttavia non riesce a non scivolare nel luogo comune di attribuire a Schillaci il pensiero “ma io che ci faccio qui?”. Come fa Carnevale a sapere ciò che passava nella testa di Schillaci 34 anni fa? Magari Schillaci avrà pensato “ma guarda quante arie si danno questi due, chi credono di essere?”. Ma è necessario che si rispettino i canoni della retorica dell’umiltà e dell’atteggiamento dimesso attaccati all’immagine di Totò Schillaci.
Il Vocabolario della lingua Italiana Treccani cosí definisce l’umiltà “Sentimento e conseguente comportamento improntato alla consapevolezza dei proprî limiti e al distacco da ogni forma di orgoglio e sicurezza eccessivi di sé”.
Come avrebbe potuto, Totò Schillaci, diventare capocannoniere del Campionato del mondo di Calcio, se non avesse avuto consapevolezza delle proprie qualità, se non avesse avuto orgoglio, se non avesse avuto addirittura sfrontatezza come testimoniato da molti dei suoi goal, penso a quelli spettacolari segnati in rovesciata volante.
Ultima considerazione. Se dicessero di voi: “Se ce l’hai fatta tu, può farcela chiunque”, voi considerereste questo un complimento?
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