Una tradizione che affonda nella religiosità della Sicilia arcaica, legata al ciclo del lavoro nei campi, al grano, alla vite, ai simboli più sacri e profondi della nostra cultura, sarà tra poco cancellata dalla creazione di uno dei poligoni di tiro militari più grandi d’Italia. Parlo della festa dedicata a Santa Venera, celebrata a fine estate nel piccolo borgo che prende il nome da lei, in cui sorge il suo santuario, circondato dal silenzio della campagna. In questo mio racconto voglio far sentire quale ferita profonda rappresenterà la sua perdita per la nostra anima: nostra, perché un’anima l’abbiamo tutti.
La chiesa è minuscola, all’apparenza spoglia, per le pareti di un bianco immacolato, ma abbellita con una cura discreta, minuziosa. Una vetrata policroma filtra la luce dalla finestra circolare sopra la porta. Nel bassorilievo in terracotta dell’altare, colori freschi e ingenui descrivono una concitata ultima cena; in quello del leggio e sullo schienale della sedia, invece, due scenette campestri, dove piccole figurine si immergono nel giallo dei campi di grano. In fondo, al centro della parete, la nicchia è vuota. La statua, appena dell’altezza d’una ragazzina adolescente, è stata posta fuori, di fronte alla porta, accanto ad un altare improvvisato. L’entusiasmo delle donne lo ha addobbato di tappeti, di tovaglie ricamate, di fiori: non vi è lusso che basti a ricoprirlo!
Dal cancelletto di ferro aperto, a poco a poco, è entrata la folla dei fedeli, occupando il recinto creato dal muretto di pietre che circonda la chiesetta. Si scambiano saluti, formano vivaci gruppetti. I più anziani siedono sulle panche osservando chi entra. Si avverte un’eccitazione simile a quella dei bambini, quando sono persi nelle fantasticherie di un gioco. E sui volti di tutti passa un lieve, indefinibile sorriso.
Sarà forse l’ora tarda del pomeriggio, che predispone alla serenità e alla conciliazione; sarà lo speciale rapporto di confidenza con la santa, che gli abitanti di questa contrada, sprofondata nell’estasi delle campagne solitarie tra Gangi e Sperlinga, si sono tramandata nel tempo: così, anche sul volto della statua sembra passare lo stesso confidenziale sorriso, sembra che partecipi anche lei agli incontri tra la gente di quella turba delicata e felice.
All’improvviso si presta attenzione a qualcosa. Un gruppetto di ragazzi comincia perentoriamente ad eseguire dei ritmi con tamburi gravi e potenti. Altri giovani caricano la piccola statua sugli assi di legno sopra le loro spalle e iniziano così a portarla fuori dal recinto. Formiamo lentamente una coda dietro la santa.
Liberata dal chiuso segreto del santuario, inizia a discendere per la strada che si apre alla vallata. Un vento fresco la circonda, il suo manto verde comincia ad apparirmi dello stesso colore del grano appena cresciuto. Rovi di more fresche e mature si sporgono dai bordi della strada; scendiamo, tra orti coltivati, scuri alberi di pere carichi di frutti, mandorli che lasciano intravvedere dal mallo spaccato i primi semi, meli dai rami curvi sotto il peso dei pomi rosseggianti, noci dalle chiome vastissime, i cui frutti verdi e lucidi brillano alla luce clemente del sole che tramonta. La piccola santa, discendendo la valle, lascia apparire quanta ricchezza era custodita tra quei campi mietuti, già secchi e ingialliti di stoppie.
Il sacerdote che guida la processione chiede, attraverso un megafono, il perdono per le nostre colpe. Quanto suona estranea e stridente quella parola: le nostre colpe! Mentre la piccola santa ci lascia dietro le sue spalle, prigionieri dell’illusione delle nostre colpe; mentre incede circondata dall’innocenza della terra, dei frutti e delle piante forti e rigogliose che nutre. Quella parola, adesso, non ci riguarda più, perché la terra non ha colpe, e ogni cosa trasforma in vita. Perché soltanto nell’innocenza si può perdonare ogni colpa.
Ecco che cominciamo a risalire. La processione compie un breve percorso circolare, così, al termine della salita, raggiungiamo il grande abbeveratoio che domina la vallata. Quello è il luogo della sosta. La santa viene posta sulla cima del muro, da dove sgorgano i getti dell’acqua. Da lì può guardare la valle. I contadini che la lavorano, nelle loro fatiche, nelle loro speranze, hanno forse ancora presente quello sguardo di donna? La sua veste bianca, le sue pieghe severe, lungo le quali si compie il dovere del lavoro? Il suo corpo, nel quale si santifica e si redime il sacrificio? Certo, lei non può rendere il loro lavoro meno duro, ma contemplandolo e accogliendolo nelle proprie braccia lo fa più tollerabile.
Il vento e il respiro affaticato del parroco fanno crepitare il microfono: ascoltiamo, in quell’attesa, un passo del Deuteronomio. Vola fino a questa contrada l’immagine del sangue spumeggiante della vite, dono di Dio al suo popolo…ma è un popolo che erra lontano, in un deserto, legato a un Dio patriarcale, e vasto, troppo vasto! Invece, in quella piccola statua issata sopra la fonte ad accogliere sul suo volto gli ultimi raggi del giorno, quanta maggiore cura, quanta più urgenza e umanità!
La processione riparte. Per una strada adesso pianeggiante e pacificata, attraverso il cancelletto, rientriamo nel santuario, ci raccogliamo all’interno del recinto che protegge la cappella.
Mentre assistiamo alla messa, sulle colline il vento trascina alcune nuvole tinte di ocra, di arancio, di rosso. L’estate è al termine, si avverte già il freddo ritorno dell’autunno, ma l’azzurro stasera è ancora luminoso, brillante come un velo di seta: è vero, quello spettacolo può offrirsi solo a chi non patisce alcun dolore. Quelle colline sembrano ignorare il dolore umano, sembrano averlo dimenticato. Oppure, tutto ciò accade perché queste mani, questo sguardo, questo sorriso, semplicemente lo contemplano, dal cielo della sera.
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