E' notiza di oggi che l'ultimo erede al trono d'Italia, Vittorio Emanuele e' passato a miglior vita.
Basta aprire la tv, leggere qualche quotidiano o agenzia di stampa per rendersi conto del periodo storico che stiamo vivendo.
Pochi parlano delle sue malefatte anche dopo l'esilio, tipo omicidi, truffe, uso e consumo della prostituzione, droghe, gioco d'azzardo.... E tanto altro.
Molti cercano di descriverlo come persona vittima di quei " cattivi partigiani" e forze politiche repubblicane.
Io, cercherò di raccontarvi una storia nostra che soprattutto vede protagonista il suo bisnonno, Umberto primo.
Probabilmente non tutti ricordate che Centoventisei anni fa, Milano fu teatro della più sanguinosa repressione della storia d’Italia contro i lavoratori.
Era l’otto maggio del 1898 quando venne perpetrato il piu' sanguinoso eccidio proletario della storia del nostro Paese.
A 126 anni da quei drammatici fatti e con la morte del nipote di quel re italico che ne ordino la strage è opportuno ricordarli e interrogarsi su di essi.
A seguito della crisi economica internazionale, aggravata in Italia dalla recente sconfitta militare e dalla violenta avventura coloniale voluta da Francesco Crispi e dal cattivo il Paese si registrò una forte crescita dei prezzi e in particolare del prezzo del pane, il cui costo raddoppiò.
Tutto questo innescò vivaci proteste popolari. Il 26 e 27 aprile 1898 vi furono le prime manifestazioni in Romagna e in Puglia. Il Primo Maggio si registrarono i primi morti: 5 a Molfetta, 6 a Piacenza, 2 a Figline Valdarno, 4 a Sesto Fiorentino. Il 4 maggio.
Il 6 maggio vi furono agitazioni anche a Milano con 3 morti, continuarono anche il 7 maggio innescate da scioperi partiti dalla Pirelli che coinvolsero i lavoratori di numerose aziende e di diversi quartieri popolari.
Vi furono tanti arresti in un clima di tensioni che vociferava di complotti di sovversivi e di anarchici e di una marcia su Milano di studenti e di contadini.
l’esercito si scateno ed inizio a sparare contro operai inermi
Il generale Fiorenzo Bava Beccaris, comandante della piazza militare, era personalmente impegnato a dirigere le operazioni di repressione.
Cariche di cavalleria si scatenarono nella città nelle cui strade erano sorte alcune barricate con i manifestanti che visibilmente non erano in possesso di alcuna arma.
Vi fu a quel punto la proclamazione dello sciopero generale.
La reazione di Bava Beccaris, alla proclamazione dello sciopero generale fu ancora più brutale.
Il giorno successivo, l' 8 maggio, venne proclamato lo stato d’assedio della città con ben 20.000 militari impegnati contro 40.000 manifestanti. Nel corso della manifestazione che si teneva in Piazza Duomo vennero sparati contro i lavoratori diverse cannonate e numerosi colpi di mitraglia. I resoconti ufficiali parlarono di 80 morti, 450 feriti e di 2.000 arrestati tra i quali Filippo Turati, Anna Kulishoff, Leonida Bissolati, don Albertario, Andrea Costa e tanti altri.
Tra i soldati si contarono due morti: uno sparatosi accidentalmente e l’altro fucilato sul posto dopo essersi rifiutato di aprire il fuoco sulla folla.
Tra concitazioni e falsi allarmi che si susseguirono freneticamente, il cannone sparò anche sul convento dei Cappuccini di Corso Monforte e provocò altri morti. Si assistette allo sconvolgente spettacolo di bivacchi di soldati in pieno assetto di guerra che presidiarono Piazza Duomo. Bava Beccaris decretò immediatamente lo scioglimento della Camera del Lavoro, della Società Umanitaria e delle associazioni politiche progressiste.
La città rimase annichilita e violentata. Seguirono processi e condanne infinite.
Il 5 giugno il re Umberto I, nonno di Vittorio Emanuele, deceduto oggi, si era mostrato «lieto ed orgoglioso di onorare la disciplina, l’abnegazione e il valore» delle truppe guidate dal generale, cui aveva conferito una delle piu alte onorificenze previste dalla casa reale.
LA VENDETTA DEGLI OPPRESSI
Convinto che il re d’Italia fosse il
responsabile ultimo della repressione delle proteste dei lavoratori, nel 1900 l’anarchico Gaetano Bresci lo uccise all’uscita da una cerimonia.
Era il 29 luglio del 1900 quando il re d’Italia Umberto I si recò a Monza per presiedere la cerimonia di chiusura di un concorso ginnico. Attorno alle dieci e trentacinque di sera il monarca decise di andarsene: mentre saliva a bordo della sua carrozza accompagnato da alcuni militari, improvvisamente un uomo si erse tra la folla, era Gaetano Bresci,e gli sparò uccidendolo.
Gaetano Bresci era originario di Prato, tessitore di professione, era rientrato da poco dagli Stati Uniti, dov’era emigrato qualche anno prima. Bresci era un anarchico convinto e rivendicò la sua azione non appena arrestato: «Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un re, ho ucciso un principio».
La decisione di Bresci di uccidere il re veniva da lontano. Lavorando sin da giovanissimo in uno stabilimento tessile aveva conosciuto i turni massacranti, le angherie e la mancanza di garanzie cui erano soggetti i lavoratori. Bresci era parte attiva degli scioperi organizzati dalla sezione anarchica di Prato e nel 1892, poco più che ventenne, era stato condannato a quindici giorni di carcere per oltraggio alla forza pubblica e rifiuto d’obbedienza.
Per gli anarchici come Bresci la vita non era facile, soprattutto dopo le leggi eccezionali emanate dal governo Crispi nel 1894 e la repressione dei moti popolari in Sicilia e Lunigiana. Migliaia gli oppositori erano stati assegnati al domicilio coatto, una misura preventiva che implicava l’obbligo di dimora in una determinata località.
A Bresci era toccata l’isola di Lampedusa, dove era rimasto fino alla fine del 1896 quando, per effetto di un’amnistia ricevuta proprio da re Umberto I, era stato rimesso in libertà. Ma come tanti anarchici, considerati “malfattori”, alla fine aveva deciso di emigrare.
Nell’inverno del 1897 si era imbarcato da Genova per New York sul piroscafo Columbia, stabilendosi a Paterson, nel New Jersey. Nella “città della seta”, dove lavorava soprattutto manodopera italiana immigrata, Bresci aveva trovato impiego nella ditta Hamil&Booth dove percepiva una paga di 14 dollari a settimana con cui manteneva la moglie Sophie Knieland e la piccola Maddalena. Il resto del tempo lo trascorreva all’hotel Bertoldi’s, dove gli appartenenti ai circoli anarchici discutevano di problematiche di lavoro e di emancipazione sociale. Dall’Italia, intanto, non arrivavano buone notizie.
Nel maggio 1898 era giunta una notizia che aveva impressionato fortemente il tessitore. I cannoni dell’esercito italiano agli ordini del generale Fiorenzo Bava Beccaris avevano sparato sulla folla, insorta per chiedere la riduzione del prezzo del pane, provocando un’ottantina di morti e centinaia di feriti.
Il 5 giugno il re Umberto I si era mostrato «lieto ed orgoglioso di onorare la disciplina, l’abnegazione e il valore» delle truppe guidate dal generale, cui aveva conferito un’alta onorificenza. Il fatto aveva suscitato un risentimento tale nell’anarchico da portarlo alla pianificazione del regicidio.
Alla fine di febbraio 1899 Bresci aveva acquistato una rivoltella della ditta Harrington&Richardson e cominciato a esercitarsi nel tiro a segno.
Ai primi di maggio aveva lasciato la fabbrica, ritirato le somme dovute e acquistato un biglietto per Le Havre sul piroscafo Gascogne, col quale era partito da New York alla volta dell’Europa il 17 maggio del 1900.
Giunto insieme ad alcuni compagni a Parigi col proposito di visitare l’Esposizione universale, Bresci si era dedicato in quei giorni alla sua passione per la fotografia. Il 6 giugno era rientrato in Italia, destinazione Prato, per incontrare i pochi famigliari rimasti; nei giorni successivi era stato a Bologna, Piacenza, Milano e infine Monza, dove era arrivato il 27 luglio.
La sera del 29 Bresci si confuse tra la folla del Parco reale che attendeva festante il re Umberto I al termine della premiazione di alcuni atleti. Intorno alle ventidue e trentacinque, mentre il sovrano risaliva sulla carrozza insieme al suo seguito, all’improvviso tre colpi sparati da distanza ravvicinata lo raggiunsero al petto, a un polmone e al collo.
Dopo alcuni attimi di smarrimento la folla cercò di raggiungere l’attentatore per linciarlo, ma i carabinieri riuscirono a sottrarlo alle percosse.
Trasportato in una sala della Villa reale, il re sarebbe morto di lì a poco.
Tutti i quotidiani uscirono listati a lutto a eccezione del socialista L’Avanti! che, pur sostenendo che il diritto alla vita «è sacro; chiunque vi attenta merita condanna», asseriva: «Col crescere degli errori del governo e del malcontento, crescono le follie e i delitti», additando come responsabili «il governo Pelloux e la folla reazionaria».
Il processo si celebrò il 29 agosto 1900 in una Milano blindata per il timore d’insurrezioni. Rinchiuso prima a Monza e poi a Milano, a Bresci venne assegnato d’ufficio l’avvocato Luigi Martelli. Dopo il rifiuto del leader socialista Filippo Turati scelto dall’imputato, Martelli venne affiancato dall’avvocato ed ex anarchico Francesco Saverio Merlino.
Nella requisitoria il procuratore generale Francesco Ricciuti cercò di bollare il gesto di Bresci come frutto di pura criminalità, commesso «da gente senza patria che minaccia di ricacciarci nelle peggiori epoche barbariche», aggiungendo che lo stesso «cammino dell’anarchia nel mondo è tracciato da atrocissimi delitti». Al contrario, l’arringa di Merlino mirava a dimostrare il “fattore politico” del gesto: «C’è stato chi [Bresci] ha creduto […] di opporre alla violenza del Governo la violenza privata». E aggiungeva: «Il regicidio non può essere un principio anarchico [ma] è stato praticato da tutti gli altri partiti politici».
L’avvocato di Bresci , durante la sua stenuante difesa, ne approfittò anche per denunciare le pratiche repressive dello stato. Nel suo intervento sottolineò come fosse necessario che chi aveva «opinioni contrarie al vigente ordinamento dello stato» potesse farle valere «per mezzo della propaganda pacifica». E poco più avanti affermava: «Per impedire il delitto non vi è che un solo metodo: la libertà per tutte le opinioni. Quando negate libertà a certe opinioni […] inducete la minoranza ad uscire anch’essa dal terreno della legalità».
Rinchiuso per cinque mesi a San Vittore a Milano, ai primi di dicembre Bresci prese il mare da La Spezia per raggiungere il reclusorio di Portolongone sull’isola d’Elba, dove sarebbe rimasto poche settimane. Il 23 gennaio del 1901 giunse nella prigione definitiva: il penitenziario di Santo Stefano, nei pressi dell’isola di Ventotene.
La sentenza, in applicazione dell’articolo 117 del codice penale, sembrò a tutti scontata. A Bresci toccò la pena massima dell’ergastolo con sette anni d’isolamento, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, il pagamento delle spese, la perdita del diritto di far testamento e il sequestro dell’arma. «La vostra condanna mi lascerà indifferente […] Io mi appello soltanto alla prossima rivoluzione», furono le sue ultime parole.
Il 22 maggio il suo corpo penzolerà legato a un asciugamano dalla finestra della cella. Secondo la versione ufficiale si tratterà di suicidio. Ma tra i detenuti circolerà sempre un’altra verità: perché il detenuto disponeva di un asciugamano quando il regolamento carcerario lo vietava? Come avrebbe potuto impiccarsi con le catene ai piedi e una sorveglianza continua?
Sarà Sandro Pertini, che a Ventotene era stato confinato durante il fascismo, a darle voce istituzionale nel 1947: «Bresci è stato percosso a morte, poi hanno appeso il cadavere all’inferriata della sua cella di Santo Stefano».
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